La fame emotiva non è solo una questione di forza di volontà

Ormai ho alle spalle quasi dieci anni di attività ambulatoriale, e durante tutto questo periodo ho avuto il privilegio (perché di questo si tratta!) di incontrare centinaia di pazienti con i loro vissuti, le loro storie, le loro necessità. Tutti si sono rivolti a me con una specifica richiesta di aiuto, e credimi quando ti dico che quello con cui più ho dovuto combattere sono stati la cultura della dieta e alcuni pregiudizi legati al concetto di forza di volontà nel saper gestire la cosiddetta “fame nervosa”.

Strano per una nutrizionista, vero? Viviamo in un’epoca di grandi cambiamenti dove la rigida ed impositiva cultura dietetica degli anni ‘50-’60-’70 si sta lentamente trasformando, ma purtroppo c’è ancora molto lavoro da fare. Un percorso dietetico volto al miglioramento del proprio benessere (che si tratti di dimagrimento, di aumento della massa muscolare o di trattamento di alcune patologie o condizioni) non è solo frutto della forza di volontà della persona coinvolta. Questo però è quello che ci hanno sempre fatto credere: la cultura della dieta spesso enfatizza la forza di volontà come un elemento cruciale nel perseguire e mantenere uno stile di vita sano e la identifica come lo specchio del valore della persona stessa. Basa le sue credenze sui due concetti di autocontrollo e disciplina, che però non sono sempre applicabili.

Il fatto di non riuscire a seguire sempre le indicazioni prescritte non dipende da una bravura più o meno marcata nel gestire le proprie emozioni, nel resistere alle tentazioni. Esistono molteplici fattori che influenzano le scelte alimentari, come l'accessibilità agli alimenti, l'ambiente sociale in cui si vive, le abitudini di vita e sì, anche la genetica. Tutti questi aspetti non possono essere trascurati, e pensare che “volere è potere” è estremamente semplicistico e riduttivo, oltre che pericoloso per coloro che non godono di una robusta autostima. 

La fame nervosa (o emotiva) fa parte biologicamente ed evolutivamente
della nostra specie.

Dobbiamo tornare nell’era paleolitica, in cui l’uomo primitivo non aveva la possibilità di mangiare in continuazione; spendeva interi giorni, settimane, addirittura mesi nel cacciare animali di grossa taglia o per incontrare luoghi con alberi da frutto o arbusti sui quali crescessero bacche non tossiche. Tralasciando il meccanismo di risparmio energetico che gli ha permesso di sopravvivere (e di cui parleremo magari in un’altra newsletter), dobbiamo tornare indietro nel tempo considerando il suo stato psico-emotivo conseguente a tanti giorni di incertezza, quando non sapeva se fosse stato in grado di sopravvivere o meno.

Nel corso dei millenni l’uomo ha costantemente sperimentato la sensazione di ansia nel non riuscire a procacciarsi del cibo, e il suo cervello con lui. Quando riusciva a farlo, mangiare in modo veloce era anche un’espressione della sofferenza passata durante l’astinenza, oltre che della paura che quel cibo potesse essere rubato e mangiato da qualcun altro. La tendenza alla compulsività quindi, affonda le sue primordiali radici anche nella paura che si possa morire di fame.

Va anche detto che nei momenti di abbondanza, il nostro cervello ha acquisito una plasticità tale nel riconoscere questa situazione producendo molti neurotrasmettitori del piacere e della gratificazione (serotonina, dopamina, endorfine, endocannabinoidi, ecc.). I circuiti cerebrali coinvolti in queste sensazioni si sono rafforzati, ingranditi, e hanno portato alla formazione del nostro cervello “moderno” più grande e più complesso. I nostri neuroni si sono abituati a dei veri e propri “boost” di piacere ogni qual volta che sperimentano un qualcosa di piacevole e gratificante. Il ricordo di quella sensazione molto appagante può portare ugualmente alla compulsività… esattamente come la paura di non avere del cibo.

La fame nervosa è un fenomeno naturale che merita rispetto e accettazione. Non è una colpa, ma piuttosto una connessione intrinseca con i nostri bisogni fisiologici.


Spiegate le basi biologiche ed evolutive della fame emotiva, forse ora è più semplice capire che il proprio comportamento alimentare non è sempre e solo frutto della forza di volontà.

Tutte le volte che mangiamo e sentiamo che le nostre emozioni prendono il sopravvento, dobbiamo considerare due aspetti.

1) Il cibo è un vero e proprio “ansiolitico meccanico”: il fatto di dover mordere, strappare, masticare, demolire fisicamente della materia più o meno solida funziona da forza di scarico su alcune situazioni di cui invece non abbiamo il controllo (situazione lavorativa frustrante? Contesto familiare difficile? Tormenti personali di varia natura?). Non a caso tutti i cibi che sono maggiormente ricercati per sedare o controllare le proprie emozioni sono quelli che richiedono un certo impegno meccanico: patatine fritte, biscotti, frutta secca. Capita raramente di sentirsi appagati emozionalmente mangiando uno yogurt o bevendo una tisana, perché manca la componente fondamentale della masticazione.

2) I cibi salati, zuccherati, grassi aumentano considerevolmente la produzione dei neurotrasmettitori del piacere. Mangiandoli, quindi, abbiamo una sensazione di temporaneo comfort dalle emozioni negative ma abbiamo anche una “rassicurazione energetica” primordiale: è come se il nostro cervello paleolitico intendesse che abbiamo finalmente cacciato un animale o incontrato dei frutti di bosco lungo il nostro cammino. Sperimentiamo quindi una sensazione di ricompensa che abbatte anche lo stress di sfamarci.

Anche se viviamo nell’epoca dell’abbondanza e in una parte del mondo dove il cibo non manca, il nostro cervello chiaramente non può saperlo (forse fra molte migliaia di anni le cose cambieranno?) e mette in atto tutta una serie di meccanismi fisiologici e metabolici che si manifestano poi con il nostro comportamento alimentare.

Ovviamente tutto questo non ci deve indurre a pensare di non avere potere decisionale (o di non poter lavorare sulla nostra
forza di volontà).
Dobbiamo solo capire che il nostro comportamento alimentare è frutto di una complicatissima rete di fattori in gioco.

Il mito delle diete detox: una visione critica sulla necessità ed efficacia

Oggi vorrei parlarti delle diete detox. Sono certa che in questi giorni ne hai sentito parlare attraverso tanti canali: tv, giornali, social sono pieni di consigli per “rimettersi in forma”, per “depurarsi” e per" “recuperare gli eccessi del Natale”.

Sai che mi piace sempre partire dall’inizio. E anche stavolta, non ti deluderò.

 

Il concetto di "dieta detox" (letteralmente “dieta che aiuta la detossinazione”), spesso è associato a quello di eliminazione di sostanze tossiche dal corpo. Tuttavia, il nostro organismo ha già un sistema di disintossicazione altamente efficiente, composto principalmente da fegato, reni, polmoni, intestino e cute (sì, anche la cute attraverso la sudorazione!) chiamati anche organi emuntori.

Il fegato è il principale organo coinvolto nella disintossicazione, metabolizzando ed eliminando le sostanze che il nostro corpo ritiene nocive. I reni filtrano il sangue, rimuovendo i rifiuti e l'eccesso di liquidi, stessa cosa fanno i polmoni con l’aria. Sicuramente già sai cosa fa l’intestino… La verità è che nessuna dieta detox può sostituire l'efficacia di questi organi nel mantenere il nostro corpo in equilibrio.

L'idea che una dieta particolare possa accelerare il processo di detossinazione non ha alcun fondamento scientifico.

Bere tisane drenanti, fare digiuni o mettere in pratica regimi ipocalorici altamente restrittivi che prevedono il consumo di un piccolo ventaglio di alimenti non aiuterà questi organi a lavorare con più efficienza.

Un altro falso mito che le diete detox alimentano è che oltre alla depurazione possa esserci un vantaggio in termini di perdita di peso e quindi di dimagrimento. Il peso però, e questo lo sappiamo bene, non si modifica semplicemente per un surplus calorico ma dipende da moltissime determinanti di salute che si creano nel tempo. Le variazioni di peso nel breve termine sono dovute prevalentemente all’accumulo di liquidi e al gonfiore intestinale e non sono indicative di cambiamenti duraturi. Per questo motivo non necessitano di detox.

Abbiamo già parlato dell’ambivalenza del digiuno intermittente e di dieta chetogenica con il puro scopo del dimagrimento a breve termine e della depurazione in questa newsletter, e abbiamo anche detto che hanno effetti limitati nel tempo e non sempre percorribili da tutti. Anche stavolta, il messaggio che voglio darti è chiaro: diete estreme che promettono di rimetterti in forma sono tra le più pericolose, non solo perché non fanno quel che promettono ma possono anche creare squilibri elettrolitici e nutrizionali.

Gli eccessi delle feste non hanno bisogno
di essere “recuperati”.

 Ma perché allora a volte sentiamo il bisogno di ritornare a mangiare in modo equilibrato e leggero, o addirittura di saltare i pasti o di digiunare per pochi giorni? Queste sensazioni non sono il messaggio chiaro che i nostri organi emuntori sono in difficoltà e quindi mangiando di meno possiamo aiutarli ad accelerare il processo di detossinazione?

No: la sensazione di pienezza è data da un eccessivo riempimento gastrico ed intestinale. L’affaticamento del fegato la maggior parte delle volte è silenzioso (quante persone senti lamentarsi di “mal di fegato”?), e soprattutto arriva dopo molti anni di comportamenti alimentari eccessivi e sbilanciati. Non dopo due settimane di festeggiamenti! E’ uno degli organi più grandi del nostro corpo (secondo solamente alla pelle) ed ha una fisiologia estremamente complessa disegnata dalla natura per lavorare alla massima efficienza e resilienza. Non sarà un estratto di frutta e verdura a dargli degli strumenti aggiuntivi per lavorare meglio, così come non saranno poche settimane di sbilanciamenti alimentari a mettere in crisi la sua attività.

Non dico che non sia giusto saltare dei pasti o di ridurre l’introito di cibo per alcuni giorni se ne sentiamo il bisogno. Dico che è sbagliato farlo pensando di:

  • poter dimagrire più rapidamente

  • dare “una scossa al metabolismo” per riprendersi in fretta

  • aiutare il fegato e tutti gli altri organi a lavorare meglio.

Piuttosto, è fondamentale concentrarsi su un'alimentazione equilibrata e sostenibile sul lungo termine. Includere una varietà di frutta, verdura, proteine magre, grassi buoni e carboidrati complessi fornisce al corpo e quindi anche agli organi emuntori i nutrienti necessari per funzionare correttamente riducendo il rischio di minare la loro fisiologia nel tempo.

Ti ho convinto Nome dell'abbonato a diffidare delle diete detox? Qual è la tua esperienza in merito? Sono curiosa di leggerti e di confrontarmi con te!

Le festività natalizie, croce e delizia

Il Natale spesso è considerato come l’ennesima complicazione al proprio percorso alimentare. C’è chi da una parte non riesce a godere di questi momenti per paura di esagerare, tentando resistenze e digiuni. Dall’altra, c’è chi si lascia completamente andare vivendo però nei giorni successivi grandi sensi di colpa, cercando di riparare con inutili regimi alimentari eccessivamente restrittivi.

Serenità: se durante tutto l’anno si è seguito uno stile alimentare equilibrato, qualche eccesso in più non comprometterà il tuo percorso di cambiamento.

Niente sensi di colpa, bensì consapevolezza.

Di seguito proviamo a chiarire qualche dubbio o perplessità che le festività natalizie portano sempre con se’.
Pronti? Via!

 

1) Quando potrei mangiare un po’ di più?

I giorni in cui si *deve* allentare un po’ di più l’attenzione a tavola sono la cena del 24 dicembre, il pranzo del 25 e il cenone del 31. Tutte le altre occasioni (pranzo del 24, cena del 25, tutto il 26, pranzo del 1° gennaio) dovrebbero rappresentare dei pasti normali ed equilibrati, ma gustosi, come quelli che seguiamo durante tutto l’anno. Non dimenticarti degli spuntini!  Ti aiutano a saziarti, a regolare la glicemia e la produzione di insulina e quindi ad arrivare all’occasione speciale con una fame moderata.

2) A Natale è possibile fare dei danni irreparabili?

No! E’ biologicamente impossibile ingrassare in periodo di tempo breve e particolarmente denso di calorie. L’aumento di peso che noti sulla bilancia nei giorni delle feste è dovuto prima di tutto alla ritenzione dei liquidi e all’aumento del volume intestinale.

Non pesarti durante questo periodo! L’ingrassamento vero e proprio è causato da un aumentato apporto di cibo cronico rispetto al proprio fabbisogno, cioè quando continui a sovralimentarti per settimane senza sosta, senza muoverti e quindi senza un dispendio energetico adeguato che controbilanci le calorie ingerite con i pasti.

3) Come posso gestire tutti gli eventi pre-Natalizi?

Pianifica in anticipo i pasti della giornata in cui hai un evento serale. Assicurati di consumare pasti equilibrati per evitare di arrivare troppo affamat* all'evento. Quando sei lì, opta per porzioni più piccole, scegliendo cibi ricchi di proteine magre, verdure e porzioni moderate di carboidrati. Limita il consumo di cibi ricchi di zuccheri aggiunti e grassi saturi. Attenzione anche all’alcol: alternalo con acqua o bevande analcoliche per ridurre il consumo complessivo e mantenere l'idratazione.

4) Come posso smaltire gli avanzi dei giorni di festa?

Puoi pensare di porzionare e poi congelare le pietanze un po’ più condite: consumate poco a poco in piccole quantità ovviamente non rappresentano un problema. Anche regalare dolci mai aperti, anziché tenerli in casa, potrebbe rappresentare una buona idea per tenere a bada le tentazioni. Se vuoi concederti qualche cosa in più, è meglio a colazione (cercando di bilanciarla bene con una fonte di proteine e di grassi buoni): c’è tutto il tempo, durante la giornata, di smaltirlo. Una fetta di panettone o pandoro, un pezzettino di torrone alla nocciola… un’occasione felice per festeggiare un periodo così speciale.

5) Ho il timore di risultare maleducat* se rifiuto il cibo offerto. Cosa fare?

Inizia sempre ringraziando per l'offerta con un tono caloroso e sincero. Poi, spiega gentilmente il motivo per cui stai rifiutando. Ad esempio, potresti dire: «Grazie mille per l'offerta, ma sono pien* ora» o «Apprezzo molto, ma sto cercando di fare scelte più leggere oggi». Se ti senti a tuo agio, puoi accettare una piccola porzione del cibo offerto. In questo modo, mostri apprezzamento senza dover mangiare una quantità eccessiva.

6) Non riesco a frenarmi dal mangiare ma poi so che mi pentirò. Cosa fare?

Zero sensi di colpa! Rifletti sulle ragioni per cui stai mangiando. Se mangi per rispondere a emozioni come noia, stress o tristezza, potresti essere coinvolt* in una fame emotiva. Imparare a distinguere tra fame fisica ed emotiva può essere utile, ma imparare a mangiare in modo consapevole implica molto esercizio, che non si fa durante le festività. Cerca di goderti in serenità il pasto condiviso con le persone, a tutto il resto ci si penserà dopo.

L'insidia delle diete iperproteiche

Iniziamo col chiarire che le proteine sono essenziali per il nostro corpo. Svolgono un ruolo fondamentale nella costruzione e nella riparazione dei tessuti, nella produzione di enzimi e ormoni, e nella salute generale dell'organismo. Ma quando la loro quantità nella nostra dieta inizia a rappresentare un problema?

Le linee guida generali di tutto il mondo suggeriscono un apporto proteico giornaliero che oscilla tra il 10% e il 35% delle calorie totali giornaliere. La dose giornaliera raccomandata (RDA, Recommended Dietary Allowance) di proteine per un adulto medio sedentario è di 0.8 grammi per kg di peso corporeo. Questo valore cresce leggermente, da 0.8 a 1.3 g per kg di peso corporeo al giorno, nei bambini e negli adolescenti a seconda dell’età e richiede un ulteriore integrazione nelle donne in gravidanza e in allattamento e negli atleti.

Ormai da molto tempo si è diffusa l’idea che una dieta ricca di proteine – abbinata all’esercizio fisico – sia efficace nell’aumentare la massa magra, cioè la massa muscolare, e nel ridurre quella  grassa, con effetti dimagranti. Ecco perché sono sempre più richiesti e commercializzati cibi proteici (che però in realtà proteici non sono, o comunque non di più rispetto a quelli già presenti in commercio) e dilaghino diete iperproteiche, spesso prescritte anche da professionisti dello sport. A questi spesso si aggiungono anche delle integrazioni di proteine in polvere.

È importante notare che la maggior parte delle persone, seguendo una dieta bilanciata, ottiene naturalmente abbastanza proteine senza la necessità di integratori o di alimenti fortificati.

Gli atleti e le persone coinvolte in attività fisica intensa possono avere esigenze proteiche leggermente più elevate, ma è sempre consigliato consultare un nutrizionista per valutare le esigenze individuali.

"Più proteine = più muscoli":
Un mito comune è che un eccesso di proteine porti
automaticamente a più muscoli.
In realtà, l'apporto proteico ottimale per la crescita muscolare dipende da vari fattori, inclusa la regolarità dell'allenamento.

Il dibattito scientifico su quali siano i benefici associati a un’alimentazione ricca di proteine è ancora aperto.

Quel che però è chiaro è che l'eccesso di proteine può portare a diversi problemi di salute, se persiste nel lungo termine e supera i livelli consigliati. Di seguito alcuni potenziali effetti negativi:

1. Problemi digestivi: consumare troppe proteine può causare problemi come costipazione, gas e gonfiore, poiché strutturalmente “impegnative” da digerire da parte del nostro intestino.

2. Sovraccarico di calorie e di grassi saturi: un abbondante consumo di alcune fonti proteiche, come carni grasse processate e formaggi, può portare a un aumento di peso e aumentare il rischio di malattie cardiovascolari a causa del contenuto di acidi grassi saturi e trans.

3. Effetti sulla salute ossea: alcuni studi suggeriscono che un consumo di proteine molto elevato può influire sulla salute ossea, a causa di un aumento dell'eliminazione di calcio attraverso l'urina.

Il dubbio però più grande legato a un eccessivo consumo di proteine è quello riguardante la salute dei nostri reni.

E’ ormai ampiamente dimostrato che un pasto iperproteico porta a un aumento della velocità di filtrazione glomerulare (GFR), un valore che indica la velocità con cui il sangue viene filtrato dai reni, e che ci fornisce preziose informazioni in merito alla salute dei reni e alla loro funzionalità.

Diversi studi hanno dimostrato che una dieta iperproteica protratta per periodi relativamente brevi (6-12 mesi) non ha effetti negativi su soggetti sani, ma rappresenta invece un rischio per quelli che soffrono già di patologie a carico dell’apparato urinario o per soggetti a rischio, cioè persone che soffrono di diabete, ipertensione e obesità. I reni sono quindi a rischio quando già è presente una malattia cronica, ma un consumo di proteine elevato per molto tempo potrebbe indebolire la salute anche dei soggetti sani e renderli più vulnerabili.

Inoltre, sembra esserci una differenza tra il consumo di proteine animali, in particolare carni rosse e processate, che porterebbero maggiormente allo sviluppo di patologie renali e cardiovascolari, e le proteine vegetali, in particolare legumi e frutta secca, che invece sembrano avere un effetto protettivo sulla salute di reni e cuore.

Sebbene siano necessari ulteriori studi per fare maggiore chiarezza è sicuramente prudente raccomandare ai soggetti con una funzionalità renale compromessa o a rischio (obesi, diabetici, cardiopatici) di evitare diete ad alto contenuto di proteine per perdere peso.

ATTENZIONE: protocolli chetogenici o a ridotto contenuto di carboidrati non sono diete iperproteiche bensì diete iperlipidiche e normoproteiche. Questo cambia molto la sicurezza di questo tipo di regimi, come ho già avuto modo di parlarne in questo articolo sulle diete chetogeniche.

La soia fa bene o fa male?

La soia è un legume come i fagioli, i ceci o le lenticchie, e come tutti i legumi è ricca di vitamine del gruppo B, di ferro e di potassio. Fra tutti i legumi è quella che contiene la maggior quantità di proteine, il che la rende un alimento estremamente versatile per coloro (ma non solo) che seguono un’alimentazione vegetariana e vegana. Tra le altre componenti di questo legume va inoltre ricordata la lecitina di soia, sostanza emulsionante spesso utilizzata come addensante, ricca di omega-3, omega-6, colina, inositolo e minerali quali calcio e fosforo.

La soia contiene anche i fitoestrogeni isoflavoni (sostanze naturali contenute nelle piante con azione simili a quelle degli estrogeni, ormoni sessuali femminili), e questa caratteristica è da sempre al centro del dibattito scientifico circa la pericolosità sulla salute.

Da molto tempo in fitoterapia i fitoestrogeni si utilizzano per attenuare i sintomi della sindrome menopausale e dei disturbi della sfera emotiva riducendo ansia, irritabilità, depressione ed instabilità umorale. Moltissimi studi suggeriscono anche che la soia protegge dalle malattie cardiovascolari abbassando la pressione arteriosa ed il colesterolo, migliorando l'elasticità delle arterie e combattendo i radicali liberi.

La principale perplessità del mondo scientifico riguarda
il connubio soia - tumori.

I fitoestrogeni hanno una struttura chimica simile a quella degli estrogeni femminili e per questa ragione sono stati, e sono tuttora, nel mirino di chi si occupa di oncologia e di tumori ormono-sensibili.


I dubbi maggiori sorgono per le donne che hanno ricevuto in passato una diagnosi di tumore al seno, poiché alcuni dati passati suggerivano che i fitoestrogeni potessero stimolare le cellule tumorali rimaste o interferire con le terapie ormonali. Gli studi più recenti sembrano smentire tutto ciò e suggeriscono che un consumo moderato di cibi ricchi di fitoestrogeni addirittura possa ridurre il rischio di recidive. A titolo precauzionale, e in attesa di dati che chiariscano la relazione tra fitoestrogeni e tumore al seno, è opportuno comunque che le donne con una precedente diagnosi di questo tipo di cancro non eccedano con alimenti ricchi di fitoestrogeni e, in particolare, che non facciano uso di integratori a base di queste sostanze.

C’è da dire però che sono state dimostrate anche delle proprietà anti-cancro della soia, soprattutto per il tumore della prostata e proprio per quello al seno. Molti studi hanno evidenziato infatti che la capacità della soia di contrastare la proliferazione incontrollata delle cellule tumorali dipende dalla sua capacità di ridurre i livelli degli ormoni sessuali.

Paradossalmente quindi, la soia sembra addirittura protettiva nell’ambito della PREVENZIONE oncologica.

Il consumo di soia NON aumenta il rischio di avere una diagnosi tumorale. Per chi però ha già ricevuto una diagnosi, l’approccio della cautela si rivela essere ancora il più sensato.

 

Al di là del discorso oncologico, voglio ricordarti alcuni benefici sicuri che la soia apporta nella nostra dieta:

1. Fonte di proteine complete: la soia è una delle poche fonti vegetali di proteine complete, poiché contiene tutti gli amminoacidi essenziali di cui il corpo ha bisogno per funzionare correttamente.

2. Salute cardiovascolare: l'inclusione di soia nella dieta può contribuire a ridurre i livelli di colesterolo LDL (colesterolo "cattivo"), che è un fattore di rischio per malattie cardiovascolari.

3. Ricca di fibre: è un’ottima fonte di fibre alimentari, che aiutano a migliorare la salute del sistema digestivo, promuovendo una buona regolarità intestinale.

4. Benefici per la salute ossea: la soia è una fonte di calcio e altri minerali importanti come il fosforo e il magnesio, che sono essenziali per la salute delle ossa.

5. Gestione del peso: gli alimenti a base di soia possono essere parte di una dieta equilibrata e aiutare a fornire un senso maggiore di sazietà, contribuendo così alla gestione del peso.

Un consumo equilibrato di soia quindi, da ruotare nelle frequenze settimanali con quello di altri legumi,
è la scelta migliore che possiamo fare.

Se siamo abituati a consumare latte di soia la mattina, pranzare con il tofu e cenare con un’insalata a base di germogli di soia probabilmente dovremmo rivedere le nostre abitudini alimentari. Ma questo è un concetto che si estende a tutti i gruppi nutrizionali e a tutti i tipi di dieta seguita.

Tutti i volti dell'indice e del carico glicemico

Oggi parliamo di un argomento tanto importante quanto molto spesso trascurato, ossia la differenza fra l'Indice Glicemico (IG) e il Carico Glicemico (CG) degli alimenti. Questi due concetti sono strumenti fondamentali per comprendere come i carboidrati influenzano i nostri livelli di zucchero nel sangue e la nostra salute in generale.

Cos'è l'Indice Glicemico?

L'IG è una misura che indica quanto rapidamente un alimento contenente carboidrati aumenta i livelli di zucchero nel sangue (ti ricordo che gli zuccheri sono la forma più semplice e pura dei carboidrati, che per loro natura esistono anche in forme più complesse). Gli alimenti con un IG alto causano un rapido aumento di questi zuccheri, mentre quelli con un IG basso lo fanno in modo più graduale.

L’IG si misura teoricamente valutando l’incremento della glicemia quando si assumono 50 g di glucosio. Questa misura viene espressa in termini percentuali rispetto al glucosio puro (o pane bianco), che viene preso come punto di riferimento stabilendone un valore pari a 100. Esistono pertanto delle tabelle dell’IG che classificano gli alimenti in alto IG, medio IG e basso IG.

Conoscere l'IG degli alimenti può aiutarti a fare scelte più consapevoli e a gestire meglio i tuoi livelli di zucchero nel sangue. Ad esempio, se hai bisogno di un rapido apporto di energia (come dopo un allenamento o in seguito a una crisi ipoglicemica se soffri di diabete di tipo I), potresti optare per alimenti con un IG più alto.

L’IG può essere influenzato anche dalla composizione nutrizionale dell’alimento, ad esempio ad opera delle fibre o di grassi presenti contestualmente nel pasto e che tendono a rallentare l’assorbimento intestinale dei carboidrati.

Consumare quindi alimenti che hanno un IG alto (come la pasta non integrale) potrebbe essere non così impattante sulla nostra glicemia se ad esempio li consumiamo con della verdura ad alta quantità di fibra, magari anche con dell’olio extravergine di oliva ricco di grassi polinsaturi.

Esiste però anche il Carico Glicemico. Di cosa si tratta?

Il CG va un passo oltre l'IG. Non solo tiene conto della velocità con cui un alimento aumenta i livelli di zucchero nel sangue, ma lo fa anche considerando la quantità di carboidrati contenuti nell'alimento stesso. Il CG valuta quindi l’effetto sulla glicemia di un alimento basandosi sulle quantità effettivamente consumate.

Per studiare il carico glicemico di un pasto si usa una formula matematica (Indice glicemico /100) x g di carboidrati a porzione). Un alimento con un basso IG potrebbe avere un alto CG se contiene una grande quantità di carboidrati, ma è anche possibile che un alimento con un alto IG possa avere un CG basso.

In sintesi: mentre l’Indice Glicemico è la misura della qualità dei carboidrati, il Carico Glicemico è la misura della loro quantità e tiene conto, dunque, sia dell’IG che del contenuto di zuccheri per porzione consumata.

Per molto tempo, considerando solo l’IG, molti vegetali come le carote o la zucca sono state erroneamente eliminate dalla dieta di molte persone perché hanno in effetti un indice glicemico alto. Facciamo proprio l’esempio della zucca, prezioso ortaggio di questo periodo autunnale: una porzione da 200 g contiene solo 7 g di carboidrati. L’IG della zucca è 85, ma il suo CG per porzione è 5,95, quindi bassissimo! 

Va anche detto che la zucca è un alimento ricchissimo di fibre ed acqua, che di conseguenza mitigano anche il suo IG alto.

Quindi: via libera a zucca, carote e altri alimenti simili come papaia, melone, barbabietola, carote, anguria, rapa, sedano rapa!

Dieta chetogenica: tra falsi miti e realtà

Negli ultimi anni la dieta chetogenica ha guadagnato popolarità per una serie importante di motivi. Tuttavia c'è ancora molta confusione e disinformazione intorno a questo approccio nutrizionale, e con la newsletter di questo venerdì ne vorrei esaminare in modo assolutamente scientifico i pro e i contro, fornendo informazioni basate sulle ultime evidenze.

La dieta chetogenica è una strategia nutrizionale basata sulla riduzione dei carboidrati alimentari, che "obbliga" l'organismo a produrre autonomamente il glucosio necessario alla sopravvivenza e ad aumentare il consumo energetico dei grassi contenuti nel tessuto adiposo. Si avvia quindi un processo chiamato chetosi, perché porta alla formazione di molecole chiamate corpi chetonici, utilizzabili anche dal cervello. In genere la chetosi si raggiunge dopo un paio di giorni con una quantità giornaliera di carboidrati di circa 30 grammi, che può variare su base individuale.

Inizialmente sviluppata per trattare l'epilessia farmaco-resistente, nel corso degli anni è stato visto che un suo impiego nell’ambito della perdita del peso portava ad ottimi risultati.

E’ assolutamente controindicata però in alcune situazioni:

  • gravidanza ed allattamento

  • diabete di tipo 1

  • insufficienza renale o epatica

  • recente infarto del miocardio o importanti problemi cardiovascolari

  • porfiria

  • disturbi del comportamento alimentare

  • alcolismo

Va gestita in maniera corretta e protratta generalmente per periodi non troppo lunghi (di solito non oltre i 30 giorni, ai quali deve seguire una graduale reintroduzione dei carboidrati), e trattandosi di un protocollo dietetico è prescrivibile esclusivamente da professionisti sanitari. E’ fondamentale farsi seguire da una figura competente durante tutta la sua durata, per saper come gestire gli eventuali (ma passeggeri) piccoli effetti collaterali dei primi giorni.

Il meccanismo di funzionamento della dieta chetogenica, in associazione ad un giusto livello di proteine e un elevato contenuto percentuale di grassi, migliora la lipolisi e l'ossidazione lipidica cellulare, quindi il consumo totale di grassi ottimizzando
il dimagrimento.


Uno dei miti più diffusi riguarda la sicurezza della dieta chetogenica. È importante sottolineare che, quando seguita correttamente e sotto la supervisione di un professionista della salute, è sicura ed efficace. Questo perché:

1. Controlla la glicemia. E’ stata dimostrata la sua efficacia nel migliorare la sensibilità all'insulina e nel contribuire al controllo dei livelli di zucchero nel sangue. Questo può essere particolarmente benefico per le persone con diabete di tipo 2.

2. Aiuta a gestire il peso. Può aiutare a perdere peso in modo incisivo, soprattutto nelle prime fasi. Questo è dovuto al fatto che la dieta è altamente saziante grazie alla presenza di un’alta percentuale di grassi buoni e a proteine nobili, che fanno di fatto passare l’appetito e sopratutto riducono il craving di dolci.

3. Riduce i trigliceridi. Questo è importante per la salute cardiovascolare, poiché livelli elevati di trigliceridi possono essere un fattore di rischio per malattie cardiache.

4. Aumenta l’energia e la concentrazione. Molte persone segnalano un aumento dell'energia e una maggiore chiarezza mentale quando seguono una dieta chetogenica. Questo può essere attribuito alla stabilità dei livelli di zucchero nel sangue e all'uso di chetoni come fonte di energia per il cervello.

5. Riduce l’infiammazione. Alcuni studi suggeriscono che la dieta chetogenica possa contribuire a ridurre l'infiammazione nel corpo. Questo può essere particolarmente benefico per persone con condizioni infiammatorie croniche (portate anche “"semplicemente” dal sovrappeso e dall’obesità).

La dieta chetogenica però NON è uno stile di vita. E’ un protocollo alimentare e come tale deve essere considerato. Successivamente, l’alimentazione deve tornare varia, equilibrata e soprattutto sostenibile sul lungo termine.

L’unico “punto debole” della dieta chetogenica è effettivamente la sua scarsa adattabilità a tutti i contesti sociali, familiari ed alimentari. Prevedendo la totale esclusione di amidacei (pane, pasta, patate, prodotti da forno), frutta, legumi ed alcuni tipi di verdura, il suo protrarsi sul lungo termine porta a problemi di gestione della vita quotidiana. E’ importante cambiare prospettiva: se si considera la dieta chetogenica come un protocollo alimentare da eseguire per un periodo limitato di tempo per poi tornare ad un’alimentazione sostenibile che risponda alle esigenze della singola persona e della sua famiglia/cerchia di amici, va benissimo. Non si sostituisce assolutamente ai percorsi di educazione alimentare che sono fondamentali per il mantenimento del peso a lungo termine e per l’abbassamento del rischio di tante patologie.

Se si intraprende per “punirsi” da eccessi alimentari considerandola come una compensazione dei periodi di scarso controllo alimentare non va affatto bene. Per questo è fondamentale informarsi, ponderare con giudizio se è il caso di intraprenderla e soprattutto farlo insieme a un nutrizionista, che saprà cucire come un vestito su misura per la persona anche un protocollo del genere.

Si possono mangiare i carboidrati la sera?

In dieci anni di professione - non esagero - credo che la domanda più gettonata da parte dei miei pazienti sia stata: “Dottoressa, ma i carboidrati si possono mangiare la sera?”

Prima di rispondere, lascia che ti spieghi qualcosa…

I carboidrati sono uno dei tre macronutrienti essenziali presenti nella nostra alimentazione, insieme alle proteine e ai grassi. Sono una fonte primaria di energia per il nostro corpo e svolgono un ruolo cruciale nel sostentamento delle funzioni vitali. Quando li consumiamo, il nostro corpo li scompone in zuccheri, che vengono quindi assorbiti nel flusso sanguigno. Questi zuccheri vengono utilizzati come fonte immediata di energia o immagazzinati nei muscoli e nel fegato per un utilizzo futuro.

Esistono due categorie principali di carboidrati:

  1. Carboidrati complessi. Si trovano in alimenti come cereali integrali, legumi, verdure e frutta, e contengono lunghe catene di zuccheri che sono digerite più lentamente. Questo assicura un rilascio graduale di energia, mantenendo stabile il livello di zucchero nel sangue.

  2. Carboidrati semplici. Noti anche come zuccheri semplici, si trovano in alimenti come prodotti da forno, dolciumi, bevande gasate e zuccherate. Sono rapidamente digeriti e possono portare a picchi di zucchero nel sangue, seguiti da cali improvvisi di energia.

    Le esigenze di carboidrati possono variare da persona a persona, in base a fattori come l'età, il livello di attività fisica e il metabolismo basale.

La verità è che NON c'è una "taglia unica" quando si tratta di tempistica e quantità di carboidrati da consumare.


Un individuo molto attivo come un atleta o una persona che pratica regolarmente attività fisica intensa, potrebbe avere un fabbisogno di carboidrati più elevato per sostenere le sue prestazioni fisiche. Allo stesso modo, lo stile di vita gioca un ruolo cruciale nella decisione di quando consumarli. Se, per esempio, si cena tardi o si svolge una professione serale (basti pensare ai medici del pronto soccorso, o ai trasportatori, o ai portieri d’albergo), potrebbe essere appropriato includere carboidrati nell'ultimo pasto della giornata.

Se il tuo stile di vita o le tue preferenze alimentari ti portano a desiderare o ad aver bisogno di una cena che li includa, non c'è motivo di preoccuparsi che possano portare ad un eccesso ponderale.


E’ doveroso specificare inoltre che, contrariamente a una credenza comune, consumare carboidrati la sera può essere addirittura vantaggioso per vari motivi:

  1. Rigenerazione muscolare. Durante la notte il nostro corpo continua a svolgere funzioni vitali, compresa la rigenerazione dei muscoli. I carboidrati forniscono il carburante necessario per questo processo.

  2. Supporto al sonno. Riso, pasta, patate favoriscono la produzione di serotonina, un neurotrasmettitore che aiuta a regolare l'umore e il sonno. Questo può contribuire a un riposo qualitativamente migliore.

  3. Regolazione dell'appetito. Consumare carboidrati complessi la sera può aiutare a sentirsi sazi e a prevenire la fame durante la notte, promuovendo una migliore gestione del peso.

  4. Miglior umore e benessere mentale. Gli zuccheri favoriscono la produzione di dopamina, un altro neurotrasmettitore collegato al benessere e all'umore positivo.

Quindi si possono mangiare i carboidrati la sera?

Assolutamente sì!
Se vuoi chiedermi quanti se ne possono mangiare, è necessaria una valutazione personalizzata da parte di un professionista della nutrizione (che invito sempre a contattare se si ha la percezione di non sapere in che direzione andare).

Spero di aver chiarito una volta per tutte che i carboidrati non sono nemici da guardare con diffidenza o di cui avere paura. Il loro corretto uso può paradossalmente fare la differenza in percorsi di dimagrimento o di riabilitazione da patologie o condizioni di vario genere.

Tutta la verità sul digiuno intermittente

“Il numero di libri di diete che incoraggiano a incorporare il digiuno nelle nostre vite è maggiore di vari ordini di grandezza al numero di trial che esaminano se il digiuno dovrebbe essere incoraggiato in generale”.

Ian Templeman, 2020

Il digiuno si pratica da millenni, basti pensare a chi lo fa per motivi religiosi e non dietetico/estetici come nel caso del Ramadan. Solo negli ultimi anni però si è iniziato a parlare tanto di digiuno intermittente (DI), ed andando ad analizzare le motivazioni, credo che si sia tutto innescato in contro-risposta ad una società obesogena ma estremamente contraddittoria, dove il junk food e la pubblicità ci spingevano (e spingono) a mangiare in maniera poco salutare ma i canoni estetici sono sempre più severi ed inclementi.

Premessa doverosa: con il termine digiuno intermittente si indicano diverse tipologie di interventi nutrizionali, molto diversi fra loro, dove la finestra di digiuno è inferiore alle 48 ore consecutive. Esiste il digiuno a giorni alterni (alternate day fasting, ADF) quello per due giorni a settimana, consecutivi o meno, (anche noto come la dieta 5:2) e l’alimentazione ristretta nel tempo con l’assunzione dell’intero apporto calorico quotidiano in una finestra ristretta della giornata (TRE, Time Restricted Eating, di cui fa parte il famosissimo e diffusissimo 16:8).

Dire “digiuno intermittente” non significa nulla e confonde le persone, che pensano che uno valga l’altro.

Detto questo, le ultime ricerche sistematiche della letteratura scientifica riportano tutte lo stesso risultato: i dati non sono sufficienti per dimostrare una reale efficacia del digiuno intermittente sulla perdita di peso, sul miglioramento dei parametri cardiometabolici e sulla resistenza insulinica. I risultati sui modelli animali erano molto più promettenti, quando si è iniziato a fare esperimenti sull’uomo sono iniziati i problemi. Questo perché gli innumerevoli studi eseguiti (sugli innumerevoli tipi di DI) differiscono per la mancanza di procedure standardizzate. Alcuni dimostrano, anche in soggetti fortemente obesi, un vantaggio nella perdita di peso ma non nel miglioramento di glicemia e colesterolo, altri esattamente l’opposto.

E’ assolutamente sconsigliato un DI “fai da te”, perché se la mancanza di energia si protrae, il corpo risponde e si adatta: attiva meccanismi di difesa che rendono le cellule più resistenti agli stress metabolici e innesca l’autofagia, ovvero una morte cellulare controllata, un “suicidio altruistico”, in cui le componenti delle cellule vecchie diventano materiali disponibili per nuove strutture.

In questo modo però il metabolismo basale non riesce più a lavorare in maniera ottimale, e se è già presente un eccesso ponderale il rischio è quello di alimentare una catena senza fine dove non si perde peso e i parametri cardiometabolici non migliorano.

C’è assolutamente la necessità di esperimenti condotti per periodi più lunghi (almeno un anno), secondo protocolli di intervento ben delineati e condivisi, e su determinate categorie di pazienti (normopeso o obesi, prediabetici o sani, uomini o donne - perché sembra esserci un’influenza del sesso nella risposta al digiuno) in modo da poter trarre dati certi ed inconfutabili. 

Un bellissimo lavoro pubblicato Nature Endocrinology solo un anno fa dichiara: «Il grado di perdita di peso è pari a quello ottenuto con gli approcci di restrizione calorica tradizionali. L’impatto sui parametri di rischio cardiovascolare e metabolico è ancora incerto. Mentre alcuni studi hanno dimostrato miglioramenti nella pressione sanguigna, LDL, colesterolo, trigliceridi e resistenza insulinica, altri hanno mostrato che questi effetti positivi non ci sono».

Quindi DI sì o no?

Se senti che non è nelle tue corde, non c’è assolutamente motivo per il quale ti debba costringere a farlo. Se senti invece che è il modello alimentare che fa per te, va ugualmente benissimo!

E’ necessario comprendere che non è il digiuno intermittente in se’ a portare vantaggi, ma è la restrizione calorica, in qualsiasi sua forma, che porta a dei reali benefici per il nostro organismo.

Concludendo:

  • Non funziona di più rispetto a una dieta normale per perdere peso

  • Non insegna nulla dal punto di vista nutrizionale e della gestione dell’alimentazione

  • Non corregge glicemia, colesterolo o altri parametri metabolici in modo migliore rispetto ad altri protocolli di restrizione calorica.

Esiste il metabolismo lento?

Spesso tendiamo erroneamente a pensare che la parola metabolismo sia connessa solo a tematiche alimentari, e cioè a tutti quei processi fisiologici responsabili della perdita o dell’acquisizione di peso. In realtà non è così!


La definizione di metabolismo è molto più complessa, ed abbraccia tematiche fisiologiche varie. La sua definizione enciclopedica è “l’insieme delle trasformazioni chimiche che avvengono nella cellula per produrre energia e nuova materia”, che come puoi facilmente intuire può significare tutto o nulla.

Si tratta di un complesso di reazioni biochimiche di sintesi e di degradazione, che si svolgono in ogni organismo vivente e che ne determinano l'accrescimento, il rinnovamento, il mantenimento. Dire quindi che si ha un metabolismo lento non equivarrebbe solo a dire che perdiamo peso lentamente, ma anche che abbiamo - per tutta la vita e tutti insieme nello stesso momento -  un lento sviluppo dell’abbronzatura, oppure una lenta riparazione di una ferita, una lenta produzione di lacrime. A volte questi esempi che ho citato possono certamente verificarsi, ma non sono riferiti alla lentezza espressa in termini temporali: spesso sono riferiti alla scarsa efficienza di funzionalità, che è un concetto tutto diverso.

Il processo di perdere peso è solo una piccolissima parte dei miliardi di processi metabolici che avvengono contemporaneamente tutti i giorni della nostra vita.

Il perdere peso lentamente non è sinonimo di metabolismo lento.

La confusione nasce dal fatto che tendiamo a considerare come sinonimi le parole metabolismo e metabolismo basale (sottogruppo del metabolismo), che è invece il minimo dispendio energetico del nostro corpo necessario per rimanere in vita e per assicurare le funzioni di base. Questo sì che può aumentare o diminuire (mai bloccarsi!), e dipende da numerosi fattori: alimentazione, attività fisica, età, clima, temperatura corporea, gravidanza/allattamento, menopausa, composizione corporea, patologie ormonali e di altro genere, genetica, sonno e stile di vita. Se gestiti male, tutti questi fattori culminano con il sovrappeso, e di conseguenza con un rallentamento del metabolismo basale.


Quindi mentre non ha senso parlare di metabolismo lento, potrebbe aver senso parlare di metabolismo basale diminuito e di perdita di peso lenta o bloccata: quest’ultima come abbiamo detto può essere la conseguenza (e non la causa) di molti fattori, in primis il sovrappeso.


Ricorda quindi che, se fai fatica a perdere peso, non dipende da un metabolismo lento. E’ il tuo metabolismo basale che non è ottimale perché c’è un eccesso ponderale!