neurobiologia

La fame emotiva non è solo una questione di forza di volontà

Ormai ho alle spalle quasi dieci anni di attività ambulatoriale, e durante tutto questo periodo ho avuto il privilegio (perché di questo si tratta!) di incontrare centinaia di pazienti con i loro vissuti, le loro storie, le loro necessità. Tutti si sono rivolti a me con una specifica richiesta di aiuto, e credimi quando ti dico che quello con cui più ho dovuto combattere sono stati la cultura della dieta e alcuni pregiudizi legati al concetto di forza di volontà nel saper gestire la cosiddetta “fame nervosa”.

Strano per una nutrizionista, vero? Viviamo in un’epoca di grandi cambiamenti dove la rigida ed impositiva cultura dietetica degli anni ‘50-’60-’70 si sta lentamente trasformando, ma purtroppo c’è ancora molto lavoro da fare. Un percorso dietetico volto al miglioramento del proprio benessere (che si tratti di dimagrimento, di aumento della massa muscolare o di trattamento di alcune patologie o condizioni) non è solo frutto della forza di volontà della persona coinvolta. Questo però è quello che ci hanno sempre fatto credere: la cultura della dieta spesso enfatizza la forza di volontà come un elemento cruciale nel perseguire e mantenere uno stile di vita sano e la identifica come lo specchio del valore della persona stessa. Basa le sue credenze sui due concetti di autocontrollo e disciplina, che però non sono sempre applicabili.

Il fatto di non riuscire a seguire sempre le indicazioni prescritte non dipende da una bravura più o meno marcata nel gestire le proprie emozioni, nel resistere alle tentazioni. Esistono molteplici fattori che influenzano le scelte alimentari, come l'accessibilità agli alimenti, l'ambiente sociale in cui si vive, le abitudini di vita e sì, anche la genetica. Tutti questi aspetti non possono essere trascurati, e pensare che “volere è potere” è estremamente semplicistico e riduttivo, oltre che pericoloso per coloro che non godono di una robusta autostima. 

La fame nervosa (o emotiva) fa parte biologicamente ed evolutivamente
della nostra specie.

Dobbiamo tornare nell’era paleolitica, in cui l’uomo primitivo non aveva la possibilità di mangiare in continuazione; spendeva interi giorni, settimane, addirittura mesi nel cacciare animali di grossa taglia o per incontrare luoghi con alberi da frutto o arbusti sui quali crescessero bacche non tossiche. Tralasciando il meccanismo di risparmio energetico che gli ha permesso di sopravvivere (e di cui parleremo magari in un’altra newsletter), dobbiamo tornare indietro nel tempo considerando il suo stato psico-emotivo conseguente a tanti giorni di incertezza, quando non sapeva se fosse stato in grado di sopravvivere o meno.

Nel corso dei millenni l’uomo ha costantemente sperimentato la sensazione di ansia nel non riuscire a procacciarsi del cibo, e il suo cervello con lui. Quando riusciva a farlo, mangiare in modo veloce era anche un’espressione della sofferenza passata durante l’astinenza, oltre che della paura che quel cibo potesse essere rubato e mangiato da qualcun altro. La tendenza alla compulsività quindi, affonda le sue primordiali radici anche nella paura che si possa morire di fame.

Va anche detto che nei momenti di abbondanza, il nostro cervello ha acquisito una plasticità tale nel riconoscere questa situazione producendo molti neurotrasmettitori del piacere e della gratificazione (serotonina, dopamina, endorfine, endocannabinoidi, ecc.). I circuiti cerebrali coinvolti in queste sensazioni si sono rafforzati, ingranditi, e hanno portato alla formazione del nostro cervello “moderno” più grande e più complesso. I nostri neuroni si sono abituati a dei veri e propri “boost” di piacere ogni qual volta che sperimentano un qualcosa di piacevole e gratificante. Il ricordo di quella sensazione molto appagante può portare ugualmente alla compulsività… esattamente come la paura di non avere del cibo.

La fame nervosa è un fenomeno naturale che merita rispetto e accettazione. Non è una colpa, ma piuttosto una connessione intrinseca con i nostri bisogni fisiologici.


Spiegate le basi biologiche ed evolutive della fame emotiva, forse ora è più semplice capire che il proprio comportamento alimentare non è sempre e solo frutto della forza di volontà.

Tutte le volte che mangiamo e sentiamo che le nostre emozioni prendono il sopravvento, dobbiamo considerare due aspetti.

1) Il cibo è un vero e proprio “ansiolitico meccanico”: il fatto di dover mordere, strappare, masticare, demolire fisicamente della materia più o meno solida funziona da forza di scarico su alcune situazioni di cui invece non abbiamo il controllo (situazione lavorativa frustrante? Contesto familiare difficile? Tormenti personali di varia natura?). Non a caso tutti i cibi che sono maggiormente ricercati per sedare o controllare le proprie emozioni sono quelli che richiedono un certo impegno meccanico: patatine fritte, biscotti, frutta secca. Capita raramente di sentirsi appagati emozionalmente mangiando uno yogurt o bevendo una tisana, perché manca la componente fondamentale della masticazione.

2) I cibi salati, zuccherati, grassi aumentano considerevolmente la produzione dei neurotrasmettitori del piacere. Mangiandoli, quindi, abbiamo una sensazione di temporaneo comfort dalle emozioni negative ma abbiamo anche una “rassicurazione energetica” primordiale: è come se il nostro cervello paleolitico intendesse che abbiamo finalmente cacciato un animale o incontrato dei frutti di bosco lungo il nostro cammino. Sperimentiamo quindi una sensazione di ricompensa che abbatte anche lo stress di sfamarci.

Anche se viviamo nell’epoca dell’abbondanza e in una parte del mondo dove il cibo non manca, il nostro cervello chiaramente non può saperlo (forse fra molte migliaia di anni le cose cambieranno?) e mette in atto tutta una serie di meccanismi fisiologici e metabolici che si manifestano poi con il nostro comportamento alimentare.

Ovviamente tutto questo non ci deve indurre a pensare di non avere potere decisionale (o di non poter lavorare sulla nostra
forza di volontà).
Dobbiamo solo capire che il nostro comportamento alimentare è frutto di una complicatissima rete di fattori in gioco.